Il pensiero del mese di dicembre, a cura di Daniele Fedeli
A mia nonna.
Guardo fuori.
Dalla finestra della stanza osservo il crepuscolo e la nebbia che scende, riportando il paesaggio nell'oscurità. Fa freddo, ma non abbastanza, e penso che anche quest'anno, come in quelli passati, nonostante i titoli sensazionalistici dei giornali, in pianura non vedremo neanche l'ombra di un fiocco di neve. La luce del lampione si diffonde calda e morbida fra le piccole gocce di rugiada che nella notte diventeranno brina sui campi non ancora arati e sulle aiuole coperte di erba. In un'atmosfera ancora autunnale, le luci di Natale sembrano eseguire una danza triste e fuori luogo, come tanti piccoli giocolieri che si esibiscono senza pubblico nelle strade deserte.
Mia nonna mi raccontava di quando, da ragazza, faceva inverno presto e a dicembre la neve arrivava puntuale, come un lontano parente che non si vede tutto l'anno e torna immancabilmente per Natale. Una visita scomoda quanto affascinante. I miei nonni non hanno mai sciato, non sapevano neanche che ci fossero delle persone che trovassero divertente buttarsi giù da una montagna innevata scivolando su delle assi di legno. Lo hanno scoperto quando è arrivata la prima televisione, in bianco e nero, dopo la guerra. Mi raccontava che con l'arrivo delle prime nevicate la gente della corte si alzava ancora prima dell'alba, e lei si metteva in cammino coi piedi bagnati e mezzo gelati in scarpe rudimentali (altro che i nostri scarponi da neve!), e arrivava al lavoro coi geloni ai piedi. Faceva la portinaia e si sarebbe scaldata facendo andà i man con lo spazzolone e pulendo scale e anfratti del condominio. Fa sorridere quanto poco basti oggi per scoraggiarci e desistere dall'andare a scuola o in ufficio, e prenderci una giornata di lavoro da remoto. «Te gh'è minga voglia de laurà», ripeterebbe oggi con fare da rimprovero. Eppure è in un inverno come tanti, bianco e austero, che ha incontrato mio nonno.
Le cose sono molto cambiate. Oggi che i miei nonni non ci sono più penso che non se ne siano andati per la vecchiaia o la malattia (mia nonna ha orgogliosamente superato i cento anni), quanto perché il mondo era ormai diventato un luogo estraneo quanto inospitale per due povere anime come loro. Erano diventati vecchi, non tanto anagraficamente, quanto superati come una cartolina e un francobollo nell'era dello smartphone. Tutto è finito per essere troppo veloce: figli di un primo Novecento contadino, scandito dalla cadenza lenta della vita di paese e dal mito nazionalistico e autarchico, non si sono riconosciuti nei ritmi e nei nuovi valori del mondo contemporaneo globalizzato, e hanno infine deciso di lasciare tutto e partire alla ricerca della loro America, nel viaggio senza ritorno.
Difficile dire se il mondo sia cambiato in un momento preciso, in un avvenimento che ha mutato il nostro approccio collettivo verso la realtà, o è stato piuttosto un cambiamento lento, subdolo e invisibile, impossibile da percepire perché avvenuto sotto la nostra pelle, con la lentezza silenziosa dell'abitudine, e alla fine non è rimasto che prenderne atto, a trasformazione avvenuta. Oggi non ci preoccupiamo più davanti ai primi fiocchi di neve. Anzi, li aspettiamo con trepidazione. Forse perché più rari e quindi preziosi, forse perché non costituiscono più una minaccia ma risvegliano immediatamente vibrazioni positive. Subito i nostri pensieri volano sulle piste da sci o ai pupazzi di neve, o ai giorni di Natale dove è bello restare a casa raccolti in un angolo caldo, a osservare il paesaggio che imbianca. Che differenza! Che ribaltamento di prospettiva! Nessuno pensa più alle mani e ai piedi congelati, nessuno al freddo come un problema, e il temuto generale inverno è un personaggio che appartiene ormai solo ai libri di storia.
Tutto è come una cartolina confezionata sui nostri desideri. È sotto gli occhi di tutti come il progresso nell'ultimo secolo abbia effettuato conquiste come mai prima d'ora, e stia velocemente eliminando, scoperta dopo scoperta, ogni paura atavica dell'umanità – o quasi. «La scienza permetterà all'uomo di riprendersi il dominio sulla creazione, datogli da Dio e perso nel peccato originale» scriveva Francis Bacon, «il nuovo sapere rimedia agli effetti terreni del peccato originale, ovvero la fatica (il sudore della fronte) e il dolore (partorirai con dolore)». Ma un cambiamento di simile portata non può avvenire senza tutta una serie di ripercussioni ed effetti collaterali, come il sasso che cadendo in acqua non può esimersi dall'emettere onde tutto intorno. I nostri genitori, che oggi va tanto di moda chiamare boomer, sono stati i primi a essere travolti da questo nuovo modo di vivere, più leggero, spensierato, con la consapevolezza che la scienza e la tecnica porteranno a un futuro migliore per tutti, e dove il dolore e la fatica vengono marginalizzati fino a diventare tabù. Ogni azione è un altro passo sulla strada a senso unico del progresso, ogni conseguenza viene semplicemente accantonata a bordo carreggiata. Pazienza se nevica sempre meno – abbiamo inventato gli innevatori.
Una volta rimossi gli ostacoli, siamo partiti alla conquista della realtà. In fondo, restando fedeli al mito biblico, la Terra e l'universo sono a disposizione di chi è stato creato a immagine e somiglianza del Creatore stesso, ed è nel nostro destino dominare sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su quelli selvatici e su quelli che strisciano al suolo. La comunione di intenti di tecnica e religione ci ha spronato a prendere il controllo su tutto, a esplorare, aprire, scavare, estrarre, costruire, produrre. Produrre, ovvero plasmare la materia al proprio bisogno. Perché in un futuro migliore non c'è limite al progresso, alla possibilità di espansione, di guadagno. Curioso che le più grandi scoperte tecnologiche siano avvenute nella civiltà occidentale? Curioso che il mito del capitalismo sia prosperato nella civiltà occidentale? Curioso che le feste più attese e partecipate siano il Natale e il Black Friday?
Il problema di fondo è che il progresso è un concetto che si alimenta di sé stesso, non ha un fine e il suo obiettivo è sempre spostato in avanti, e si sostazia della volontà di una crescita continua, infinita, non curandosi che il sistema nel quale viviamo è invece chiuso e finito. Quando qualcosa inizia a crescere in modo morboso, senza controllo, finisce per diventare non solo non più utile alla causa, ma addirittura pericoloso, dannoso, mortale. Nel nostro corpo lo chiamiamo cancro. Ma ha diversi nomi a seconda del contesto in cui lo consideriamo: riscaldamento globale se ci riferiamo al clima del nostro pianeta, capitalismo se parliamo del nostro sistema economico. Quando parliamo della nostra società, il nome che gli abbiamo dato è benessere. Una definizione ingannevole e pericolosa, che non spaventa e anzi, dal suono così dolce da convincerci che il benessere sia la via maestra per la felicità. Così investiamo tutte le nostre energie nel consumare, come se la vita fosse un eterno banchetto romano dove si mangia e si vomita per poter rimangiare ancora e ancora.
Non è sorprendente che facciamo tutto questo ormai con grande naturalezza. Perché è la forma mentis che abbiamo interiorizzato attraverso secoli di proiezione al futuro, e con cui siamo cresciuti noi e i nostri padri, e con cui ragioniamo e agiamo e viviamo. Ognuno convinto che tutto ciò è suo diritto – oggi più che mai, visto che viviamo in una società di molti diritti e pochi doveri. Provate a chiedere a qualcuno di restare a casa durante queste vacanze di Natale o di rinunciare alla settimana bianca, perché il turismo di massa e la costruzione sconsiderata di città ad alta quota e il sostentamento degli impianti sciistici sta inesorabilmente distruggendo le nostre montagne. Le generazioni dei millennials o della cosiddetta Generazione Z sono accomunate dall'essere nate ed educate in questo contesto, non hanno mai veramente conosciuto fatica e dolore, sono cresciute nell'apice dell'era del consumismo ed è l'unica realtà che conoscono. Tutto ciò è normale perché interiorizzato e a fondamento del modo di pensare.
Non ci sentiamo in alcun modo parte del tutto. Al contrario. Ognuno si vede come un'entità separata, a sé; ognuno si sente forte del proprio ingegno, delle proprie capacità e soprattutto della propria libertà. Ma è proprio questo sentirci liberi, disgiunti dal resto del mondo, a causarci nel profondo un gran senso di solitudine e tristezza.
E dal momento che siamo gli esseri più influenti sul nostro pianeta, gli elefanti nella stanza, la nostra deriva diventa la deriva anche del nostro pianeta. Nessun altro essere vivente ha mai avuto un'impatto così importante sul mondo in cui viviamo, e nessun altro ha la possibilità di essere così determinante per la sua sopravvivenza.
E quindi?
Quindi abbiamo bisogno di rivedere il nostro rapporto con il tutto, il nostro posto nel mondo, il nostro approccio alle cose. Dobbiamo ritornare consapevoli che il mondo non esiste per noi, quanto siamo noi che esistiamo per il mondo. Per troppo tempo abbiamo abusato del nostro ego, rincorso senza cura e ritegno un ideale cancerogeno quanto vano, disboscato foreste, deturpato le montagne, inquinato i mari e allevato e massacrato migliaia di animali perché questo ci sembrava giusto, e all'apice dell'ingordigia della nostra corsa cominciamo a vedere, forse troppo tardi, le conseguenze. Essere continuamente spinti a consumare ci ha persuaso che questo sia l'unico modo di stare al mondo e raggiungere la felicità: dobbiamo trovare la forza di smarcarci da questo inganno. E non è facile, perché pervade ogni angolo del nostro essere, non solo limitato a ciò che compriamo. È consumismo scegliere di acquistare un nuovo prodotto solo perché possiamo anziché provare a riparare quello che si è appena rotto; è consumismo viaggiare, non alla ricerca di qualcosa ma perché di moda, al punto da diventare obbligo sociale – in fondo influencer, Instagram, le offerte delle compagnie aeree non sono tutte una grande pubblicità dell'azienda turismo? Esistono forme di coercizione ben più convincenti della repressione fisica, che trovano terreno fertile nel nostro istinto innato di omologarci al comportamento del gregge al quale apparteniamo. «Ciò che è fuori è anche dentro; e ciò che non è dentro non è da nessuna parte», dicono i saggi buddhisti. Se uno non ha niente dentro, non troverà mai niente fuori. È inutile cercare nel mondo quel che non si riesce a trovare dentro di sè. Pensiamoci la prossima volta che dobbiamo prendere l'aereo, è la Terra che ce lo chiede.
È consumismo costruire rapporti umani superficiali, opportunistici, e sperare che l'amore prosperi per conto suo o grazia divina. Perchè a furia di trattare le cose e il mondo come usa e getta, stiamo imparando a trattare anche le persone come usa e getta. Se ci siamo stancati del nostro partner, semplicemente lo cambiamo, al punto da stupirci quando due persone riescono a stare insieme per tutta la vita. «Non ti amo più», si sente dire, come se l'amore fosse a tempo, una batteria che pian piano si scarica come quella del nostro telefono o una medicina che va esaurendo il suo effetto. Ma una madre smette forse mai di amare il figlio? Nulla cresce senza cura, nessun giardino fiorisce senza le attenzioni del contadino, nè l'amore è in grado di sopravvivere da solo, come un bambino senza attenzioni. «Amiamo le persone non tanto per il bene che ci fanno, quanto per il bene che facciamo loro», scriveva Tolstoj. Noi siamo l'amore. E dire «Non ti amo più» equivale a dire «Io non sono più».
È notizia recente che il 2024 è stato l'anno più caldo degli ultimi centocinquanta, superando il temuto tetto dell'aumento di un grado e mezzo di temperatura media rispetto all'epoca pre-industriale. I propositi e gli sforzi stipulati nell'accordo di Parigi si sono rivelati non sufficienti, in quello che sembra un vortice che gira sempre più veloce e che trasporterà noi e il nostro pianeta nel baratro. Per uscirne occorrerà uno sforzo enorme, sovrumano: proprio perché l'umano di oggi è plasmato sul consumo, occorrerà superare l'umano per ritrovare una società della cura. Non basta rendersene conto, non basta capirlo, bisogna introiettarlo nel profondo laddove ora dimorano altri paradigmi, e risvegliarlo a livello non solo individuale, ma collettivo, in una nuova forma di co-scienza. E di azione. Siamo pronti a fare dei sacrifici, la nostra generazione è pronta a fare dei sacrifici? Così come i nostri antenati immolavano al dio ciò che avevano di più caro per avere il suo perdono o il suo favore, siamo pronti noi a sacrificare le nostre vacanze, i nostri eccessi, il nostro sconsiderato consumo di latte e carne, il comfort di un riscaldamento a 22 gradi in inverno e l'aria condizionata in estate; siamo pronti a trovare meno regali sotto l'albero o lasciare in garage la nostra macchina per spostarci nelle città anche quando piove o fa freddo, siamo pronti a cambiare il nostro modo di relazionarci con il mondo in cambio della sua e della nostra salvezza?
In ultima analisi si tratta di ritrovare il buon senso (il senso della misura) nel nostro approccio alla vita. Nessuno si permetterebbe di entrare in casa di un amico e abusare della sua ospitalità vandalizzandogli il frigorifero, occupando il suo letto, sottraendogli il telecomando e prendendo il controllo indiscriminato dei suoi spazi. Perché dovremmo farlo su un pianeta che non ci appartiene e sul quale siamo solo ospiti passeggeri? Icaro è volato vicino al sole, fidandosi delle sue ali, e tanto più alto il suo volare, sfidando gli dèi, tanto più rovinosa la sua caduta. La parola umano ha il suo etimo nel latino humus, terra. La stessa radice all'origine di umiltà. Forse è da questo triangolo che dovremmo ripartire per recuperare la giusta via.
Pochi colpetti leggeri sul vetro lo fecero voltare verso la finestra. Aveva ricominciato a nevicare. Guardò assonnato i fiocchi, argentei e scuri, che cadevano obliquamente contro la luce del lampione. Era venuto il momento di mettersi in viaggio verso occidente. Sì, i giornali avevano ragione: c'era neve in tutta l'Irlanda. Cadeva dovunque sulla scura pianura centrale, sulle colline senza alberi, cadeva dolcemente sulla palude di Allen e, più a occidente, dolcemente cadeva nelle scure onde ribelli dello Shannon. Dovunque cadeva anche nel cimitero isolato sulla collina dove Michael Furey era sepolto. Si posava in grossi mucchi sulle croci storte e sulle lapidi, sulle lance del cancelletto, sugli sterili spini. La sua anima si abbandonò lentamente mentre udiva la neve cadere lieve nell'universo e lieve cadere, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e i morti.
(James Joyce, Gente di Dublino – I morti)
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